La mia vita da zucchina: un dolcissimo capolavoro tra vita e poesia – Recensione

Inteso, emozionante, potentissimo. È così che si potrebbe riassumere La mia vita da Zucchina, coraggioso esordio alla regia del francese Claude Barras che dopo l’apprezzatissima première mondiale allo scorso festival di Cannes, ha riscosso complimenti da tutto il mondo dell’animazione, portando a casa anche la candidatura a miglior lungometraggio agli Oscar 2017.

Il film, basato sul romanzo di Gilles Paris Autobiografia di una zucchina (poi rieditato con il titolo del film) e realizzato in animazione a passo uno, racconta la storia di Icare (soprannominato Zucchina), bambino di 9 anni che dopo aver accidentalmente ucciso la madre, da tempo alcolizzata, viene mandato a vivere in una casa famiglia. Qui Icare ha modo di fare la conoscenza di molti coetanei come lui, rimasti orfani o allontanati dalle loro famiglie perché vittime di abusi e maltrattamenti.

È uno spaccato di vita terribile quello che Barras porta sul grande schermo, ed è incredibile la delicatezza e al contempo il crudissimo realismo con cui la storia del piccolo gruppo di bimbi sperduti ci viene posta davanti. C’è Alice, tenera e fragile biondina rimasta vittima delle sevizie del padre; c’è Simon, bulletto dal cuore d’oro portato via a una coppia di tossicodipendenti; c’è Jujube, sempre in attesa del ritorno della sua mamma, rimpatriata nel loro paese natio e c’è Camille, che più di tutti si legherà a Zucchina, affidata alla casa famiglia dopo aver visto suo padre sparare a sua madre e in seguito suicidarsi.

Difficile fare paragoni con altri film d’animazione per quello che è apparso a tutti, fin da subito, un capolavoro senza precedenti. E tanto più capolavoro nella sua abilità di sorprendere in silenzio, senza clamori e senza pietismi, e nella sua spiazzante capacità di parlare la lingua (quella vera, nuda e grezza) dei bambini per rivolgersi a dei bambini, noncurante del senso di stordimento che resta al pubblico adulto. La storia di Zucchina e dei suoi amici scorre veloce nei suoi 70 minuti, divertente e vitale, tra poesia e sofferenza, senza smetter mai di far ridere, mossa da un’abilissima regia in grado di consegnarci delle sequenze indelebili, come la carrellata all’indietro sul fermo immagine dei bambini intenti a fissare una famiglia felice che gioca sulla neve. Un passaggio che in un istante ci consegna il senso di un racconto tanto particolare: la rara bellezza del fortissimo legame dei protagonisti tra loro, ma anche il pesante e forse insormontabile isolamento dal resto della società.

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